Aldo Cazzullo del Corriere della Sera ha intervistato Maria Romana De Gasperi. Primogenita del grande Statista trentino, è attualmente presidente onorario della Fondazione Alcide De Gasperi. Studiosa della storia e della politica italiane dell’ultimo secolo, ha dedicato alcuni libri alla figura del padre di cui è stata insostituibile collaboratrice e segretaria personale. Dopo la morte di Alcide De Gasperi, Maria Romana si è impegnata a "narrare" la figura del padre soprattutto dal punto di vista umano. Ha pubblicato una biografia del padre intitolata “De Gasperi uomo solo” e successivamente i volumi “Mio caro padre” e “La nostra patria Europa” . Nel 1982 nacque per sua volontà La Fondazione De Gasperi, che divenne punto di riferimento e memoria dei valori vissuti e promossi da Alcide De Gasperi, quali: la centralità della persona umana, la difesa dell’architettura democratica, l’integrazione europea, l’attenzione alle nuove generazioni.
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- Signora De Gasperi, qual è il primo ricordo di suo padre Alcide?
«I primi ricordi di papà sono le foto che mi mostrava la mamma. Purtroppo non lo rammento prima della cattura e della prigionia».
- Come andò?
«Mio padre fu preso dalla polizia fascista sul treno che da Roma lo portava a Firenze. Era diretto a Trieste: voleva allontanarsi dalla capitale, dove era conosciuto, e vivere in una città più piccola. Ma credo che non fosse convinto sino in fondo della sua scelta. Era abituato ad affrontare le cose; non a scappare».
- E poi?
«Lo portarono a Palazzo di Giustizia in catene, con altri detenuti. Si sentiva sicuro che l’avrebbero mandato libero: in fondo era un deputato che criticava il governo. Lo condannarono a quattro anni di carcere».
- Come reagì?
«A mia madre raccontò che non era riuscito neppure a piangere; mormorò solo il nome di Dio. Lo riportarono incatenato a Regina Coeli. Da lì mi scrisse: “Mia cara pupi, sii brava e prega tanto la Madonna per il tuo povero papà”».
- Cos’altro raccontava delle carceri fasciste?
«Un giorno la guardia lo scoprì dallo spioncino mentre scriveva sulla parete della cella con uno spillo, sfuggito alle persecuzioni corporali. Era una frase del Vangelo: “Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur”».
- Beati coloro che piangono, perché saranno consolati. E la guardia?
«Chiamò il suo capo, che costrinse mio padre a cancellare la frase con il manico del cucchiaio di legno. Papà commentò che era stato gentile, perché non l’aveva punito. Dalla finestrella intravedeva l’orto botanico. Mi scrisse: “C’è dentro un usignolo e la sera quando canta penso a te; e la notte quando, bassa all’orizzonte, vedo una stella penso a te e a Lucia”, la mia sorellina, che era nata da poco».
- Poi arrivò il Natale del 1927.
«E papà decise di farmi un regalo. Non aveva soldi e in ogni caso non avrebbe potuto comprarmi nulla. Così ritagliò le fotografie di una rivista che gli avevano mandato in carcere, il National Geographic Magazine. Erano immagini della Palestina. Vede? Pastori con le pecore. I prati fioriti della Galilea, con il mare di Tiberiade sullo sfondo. I luoghi di Gesù».
- Questa è la grafia di De Gasperi?
«Sì. Siccome le didascalie erano in inglese, lui le traduceva. E aggiungeva qualche riga per raccontarmi la storia di Gesù. Ecco, questa è la fontana di Nazareth. Papà mi spiegava che qui la Madonna era andata ad attingere l’acqua per il Bambino. E mamma mi leggeva la storia ad alta voce».
- Quel carcerato divenne presidente del Consiglio, per otto anni consecutivi, come non è più accaduto a nessuno. E ora quell’album inedito diventa un libro firmato da Alcide De Gasperi: «La vita di Gesù narrata alla figlia Maria Romana».
«Anche questo che ci attende sarà un Natale difficile. L’importante è non perdere mai la speranza, neanche nell’ora più buia. Papà dal carcere ci scriveva: “Miei cari, dormite in pace; io sono presente”».
- Quanto rimase a Regina Coeli?
«In cella si ammalò. Lo portarono in ospedale, ma sempre con la porta aperta, e la guardia di fuori. Fu liberato dopo 14 mesi. Il primo vero ricordo che ho di lui è quando tornò a casa. Non sapevo che fosse stato in prigione, mi avevano detto che era in una città lontana, per lavoro. Lucia rifiutò di abbracciarlo: “Tu non sei il mio papà, il mio papà è quello lì” diceva indicando la sua fotografia».
- Con voi figlie com’era?
«Dolcissimo. Se combinavamo qualcosa, mamma ci avvisava: “Lo dico a papà!”. Ma noi eravamo tranquille perché sapevamo che papà non ci avrebbe fatto niente. Io ero innamoratissima di lui. A tavola mia madre sedeva alla sua destra, io alla sua sinistra. Appena lui diceva qualcosa, io aggiungevo: “Ha ragione papà!”».
- A cosa deve il suo nome?
«Maria era la nonna paterna, Romano il nonno materno; ma papà mi chiamava Mana. Lucia era un nome che piaceva a mamma. Mia sorella si fece suora, e ha sempre avuto con nostro padre un rapporto spirituale molto forte, lui la consultava spesso. Poi nacque Cecilia. Papà voleva un maschio per chiamarlo Paolo: era molto devoto a san Paolo. Ma arrivò un’altra bambina; e fu chiamata Paola».
- È vero che nei giorni di festa comprava sette paste, una per ogni familiare?
«Sì, perché con noi abitava sua sorella, zia Marcella. A Natale però oltre al presepe facevamo l’albero: un retaggio austroungarico. Prima della guerra a Roma l’albero di Natale non lo faceva quasi nessuno».
- Com’era la vostra vita sotto il fascismo?
«Papà trovò un posto nella biblioteca del Vaticano. All’inizio fu dura, molti lo guardavano con sospetto. Lavorava il mattino, lo ricordo all’una attraversare una piazza San Pietro enorme e vuota, senza sedie, senza transenne… Il pomeriggio per arrotondare faceva traduzioni dal tedesco, che parlava come l’italiano: lui dettava ad alta voce, mamma batteva a macchina. Ogni tanto mi assegnava una piccola missione».
- Quale?
«Nei giorni delle manifestazioni del regime, si temevano arresti e perquisizioni. Allora papà mi affidava un pacco con il suo diario e le sue carte, da portare alla vicina del piano di sotto, che era una brava persona. Un giorno spuntò un ritaglio con il suo nome. Solo allora capii chi era. E lui mi raccontò la sua vita politica. Ero ancora bambina, ma stavo già dalla sua parte».
- De Gasperi era stato capogruppo alla Camera e segretario del Partito popolare. Ma prima di diventarne un fiero oppositore aveva votato la fiducia al governo Mussolini.
«Fu una fase brevissima, che non gli piacque per nulla. Papà sapeva bene che il partito non aveva le forze per combattere il fascismo. Era un uomo serio. Un uomo di verità».
- Quando entrarono i tedeschi a Roma si dovette nascondere.
«Era chiuso in Laterano, con lui c’era Pietro Nenni. Arrivarono i nazisti, i preti li fecero scendere nei sotterranei. Nenni disse a papà: “Tu la chiami Provvidenza, io lo chiamo Fato; ma mi sa che stavolta è finita”. Invece si salvarono, però dovettero cambiare nascondiglio».
- De Gasperi dove andò?
«Nel palazzo di Propaganda Fide, in una stanzina sul tetto. Io andavo a trovarlo in bicicletta, mi vestivo tutta colorata per sembrare una ragazza in gita. Nel cestino, sotto la verdura, nascondevo i suoi articoli per i giornali clandestini e i messaggi per i resistenti. Una volta ero in tram quando il pacco si lacerò, un passeggero mi disse: “Forse è meglio se scende”. Dopo la guerra volevano darmi una medaglia. Papà disse che non era il caso».
- Di Nenni era amico?
«Si rispettavano. Quando arrivò la notizia che la figlia Vittoria era morta ad Auschwitz, mio padre volle andare di persona a dargli la notizia».
- Di Togliatti cosa pensava?
«Lo considerava molto intelligente e molto colto: entrambi leggevano il latino e il greco, e adoravano Dante. Papà sapeva che Togliatti pativa lo stalinismo. Apprezzava l’equilibrio necessario per fare il capo dei comunisti in un Paese legato agli americani. Certo, quando erano al governo insieme, mio padre si seccava nel vedere le cose decise insieme in Consiglio dei ministri contraddette il giorno dopo sull’Unità … Ma la rottura fu la campagna del 1948».
- Quando Togliatti minacciò di prendere suo padre a calci con gli scarponi chiodati?
«No. Fu su Cesare Battisti».
- I comunisti dissero che De Gasperi si era rallegrato per la sua impiccagione.
«Era una vecchia calunnia fascista, che lo feriva molto. Con Cesare Battisti era stato nelle carceri austriache, per aver chiesto un’università in lingua italiana».
- Quando era presidente del Consiglio lei gli faceva da assistente, sia pure senza stipendio. Come ricorda il viaggio in America? Com’era Truman?
«Il presidente era cordiale, alla mano; ma il viaggio fu molto difficile, e non solo per la tempesta che funestò il volo. Gli americani continuavano a farci incontrare gente, il mattino gli industriali, il pomeriggio i capi dei ferrovieri, ma di aiuti non parlavano mai; e l’Italia era letteralmente alla fame. La penultima sera papà mi disse: “Qui partiamo a mani vuote”. Il giorno dopo ci diedero il famoso assegno».
- E Adenauer?
«Molto serio, molto tedesco. Era legato a mio padre perché fu il primo a incontrarlo, quando tutti lo respingevano. Ma il suo vero amico fu Schuman. Quando papà morì, mi invitò a Parigi. Mi chiese di lasciargli qualche sua lettera, come ricordo».
- E Pio XII?
«Non si vedevano mai. Mio padre gli scriveva ma il Papa non rispondeva, gli faceva scrivere da Montini. Però quando il Vaticano chiese alla Dc di allearsi con i missini, papà rifiutò».
- E Pio XII non gli concesse udienza per l’anniversario di matrimonio.
«Sì, forse fu per quello».
- Del Duce cosa diceva?
«Non ne parlava mai. Solo una volta in Liguria, davanti a un assalto di sostenitori che picchiavano le mani sul vetro per invitarlo a fermarsi, mi disse: “Ora comprendo Mussolini. È difficile capire se fanno così perché hai combinato qualcosa di buono, o perché sei il capo”. Ma lei mi sta facendo parlare di politica. Io volevo parlarle del libro di Natale».
- Come ha vissuto questi mesi, signora De Gasperi? Ha paura del Covid?
«Non mi importa nulla. Prima o poi devo morire, con o senza Covid. Il vero dolore è veder morire i figli».
- Le i ne ha avuti tre.
«Il primo lo chiamammo Giorgio, come il fratello di mio marito: partigiano cattolico, ucciso dai fascisti. Si era nascosto con un compagno in un casolare del Piemonte: li circondarono e diedero fuoco al loro rifugio. Il mio Giorgio è morto in un incidente di moto. Il secondo figlio è Paolo: prima di andarsene, papà ha avuto la gioia di avere un nipote che portasse il nome del santo. Il terzo è Maurizio: quello lì nella foto, rosso di capelli. È morto per una malattia contratta in Africa, dove riscattava i bambini soldato. Lo ricordo in lacrime: se avesse avuto più soldi, diceva, ne avrebbe salvati di più».
- Pensa di ritrovarli?
«Lo spero. Papà e i ragazzi di sicuro sono in Paradiso; ma chissà se io me lo sono meritato. Non bisogna mai esserne sicuri».
- Suo padre non ha mai dubitato di Dio?
«No. Come San Paolo, ha combattuto la buona battaglia, ha conservato la fede. E anche dal carcere è sempre stato lui a fare coraggio a noi».
Corriere della Sera, 22 novembre 2020