Non punibile il suicidio assistito. È questa la decisione della Corte Costituzionale (anche se occorrerà leggere bene la sentenza) che ha sancito che “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Dispiace che la Consulta si sia, con tutta evidenza, posta dalla parte della morte anziché della vita. Verrebbe da dire che l’Alta Corte abbia di fatto equiparato il suicidio, sia pure in casi estremi dovuti a “una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche”, a una prestazione sanitaria da parte del Servizio sanitario nazionale che si fa mortale nel nome della pietà. E’ la resa della legge alla morte come rimedio al male di vivere e al vivere male. La tragica scelta di un individuo che intenda porre fine alla sua vita con un letale protocollo medico, diventa il simbolo della solitudine del malato e il segnale della resa di una società incapace di ascoltare, di accogliere e di includere.
Dispiace che la Consulta non abbia fatto il minimo riferimento alla difesa della vita e al contributo della solidarietà umana nei confronti di chi è nel bisogno. Certamente è stato aperto un orizzonte pericoloso, anticamera della eutanasia. Con la prostettiva facile e non troppo remota di sopprimere - in nome della dolce morte - ammalati terminali, o troppo anziani, o non autosufficienti, o diversamente abili. I Vescovi della Chiesa italiana in un comunicato della Conferenza Episcopale hanno evidenziato la preoccupazione per la “spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità”.
Colmando la lacuna della Corte Costituzionale i Vescovi italiani rilanciano “l’impegno di prossimità e di accompagnamento della Chiesa nei confronti di tutti i malati”. E in vista del passaggio parlamentare l’episcopato italiano auspica, altresì, che siano riconosciuti “nel massimo grado possibile tali valori, anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta".
Non v’è dubbio alcuno che la decisione della Consulta, che prima o dopo sarà recepita dalla legislazione del Parlamento della Repubblica, apre un varco alla cultura della morte. E’ pur vero che la Corte non parla affatto di un diritto al suicidio. Ma la decisione interpreta la cultura della assoluta sovranità dell’antropocentrismo che ritiene l’uomo assoluto arbitro del proprio destino, e una visione utilitaristica della vita umana. Occorre sostenere con serena fermezza il diritto alla vita che è principio fontale dui tutti i diritti della persona; mentre è quanto diffiicle sostenere che esista un diritto alla morte.
L'etica del bilancimento dei beni è in netto contrasto con il principio dell'etica naturale e dell'etica cattolica. Per questo Veritatis Splendor afferma chiaramente che "di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno" (96).
Il terzo elemento che preoccupa è l’assenza di un minimo riferimento alle relazioni umane in ordine al mistero della sofferenza. Non un riferimento alla famiglia, alla solidarietà delle persone buone, alla comunità civile. E il rischio è che i malati gravi siano considerati un peso e un costo per la società. La dignità della vita umana cede il posto alla decisione di fine vita a fronte di “una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche” reputate “intollerabili”.
E’ pur vero che il mistero della sofferenza e del dolore fa paura, crea angoscia, rende precari, fa perdere lucidità, suscita interrogativi esistenziali. Nascondere a se stessi tutto questo sarebbe da stolti! Per questo occorre fare di più nella direzione di tutelare il malato dalla sofferenza e offrire migliori cure palliative laddove necessario, piuttosto che assecondare le richieste disperate di chi non ha potuto ricevuto un supporto adeguato. Come ricorda la legge sul testamento biologico resta sempre la facoltà del rifiuto delle cure quando siano sproporzionate. Tuttavia è indispensabile investire e ottimizzare le risorse nel percorso della palliazione e del supporto psicologico e sociale del malato e dei suoi familiari. Che dire? Dopo la dichiarazione (sentenza) della Consulta i malati non sono più liberi, ma più deboli, poiché qualcuno li può aiutare a morire.
Ciò nonostante ci ostiniamo a credere alla sacralità della persona e della vita, e al fatto che l’uomo non è padrone né della vita né della morte.
Tommaso Stenico, teologo